L'AMORE

 

Nessuno meglio di Miss Rose poteva sapere cosa stava succedendo nell'anima ammalata d'amore di Eliza. Indovinò immediatamente l'identità dell'uomo, perché solamente un cieco poteva non accorgersi della correlazione tra lo stato confusionale della ragazza e la visita dell'impiegato di suo fratello con le casse del tesoro per Feliciano Rodriguez de Santa Cruz. Il suo primo impulso fu di scartare senza pensarci due volte un giovane tanto insignificante e spiantato, ma ben presto si rese conto di averne sentito anche lei il fascino pericoloso e di non riuscire a toglierselo dalla testa. Certo, al primo sguardo si era fissata sugli abiti rammendati e sul lugubre pallore, ma una seconda occhiata le era stata sufficiente per farle apprezzare l'aura tragica da poeta maledetto. Mentre ricamava furiosamente nella stanza del cucito, si scervellava su questo rivolgimento del destino che scombinava i suoi progetti di trovare a Eliza un marito compiacente e danaroso. I suoi pensieri erano una trama di macchinazioni per stroncare questo amore prima che nascesse, che andavano dal mandare Eliza come interna in una scuola per signorine in Inghilterra, o in Scozia dalla sua vecchia zia, al vuotare il sacco con il fratello affinché si disfacesse dell'impiegato. Tuttavia nel fondo del suo cuore, e suo malgrado, covava il segreto desiderio che Eliza vivesse la sua passione fino all'estenuazione e compensasse così il tremendo vuoto che il tenore aveva lasciato diciotto anni prima nella sua vita.

Nel frattempo, per Eliza le ore trascorrevano con terribile lentezza in un vortice di sentimenti confusi. Non sapeva se fosse giorno o notte, martedì o venerdì, se da quando aveva conosciuto quel giovane fossero passate ore o anni. Improvvisamente sentì che il sangue le diventava schiumoso e la pelle le si riempiva di pomfi che si dileguavano rapidamente e inspiegabilmente nello stesso modo in cui erano comparsi. Vedeva l'amato ovunque: nelle ombre degli angoli, nelle forme delle nuvole, nella tazza del tè e soprattutto nei sogni. Non sapeva come si chiamasse e non osava chiederlo a Jeremy Sommers perché temeva di scatenare un'ondata di sospetti, ma per ore indugiava a immaginare un nome adatto a lui. Avvertiva un disperato bisogno di parlare con qualcuno del suo amore, di analizzare ogni particolare della breve visita del giovane, di speculare su ciò che si erano taciuti, su ciò che probabilmente si erano detti e su quanto si erano trasmessi con lo sguardo, con i rossori e le intenzioni, ma non c'era nessuno di cui fidarsi. Agognava una visita del capitano John Sommers, quello zio con la vocazione da filibustiere che era stato il personaggio più affascinante della sua infanzia, l'unico in grado di capirla e di aiutarla in un simile frangente. Non aveva il minimo dubbio circa il fatto che se Jeremy Sommers fosse venuto a conoscenza della situazione, avrebbe dichiarato una guerra senza quartiere al modesto impiegato della sua ditta, e, quanto al comportamento di Miss Rose, non era prevedibile. Decise che meno si sapeva in casa, più libertà di movimento avrebbero avuto lei e il futuro fidanzato. Non valutò mai la possibilità di non essere corrisposta con la stessa intensità di sentimenti, perché le pareva semplicemente impossibile che un amore di tali proporzioni avesse stordito solamente lei. La logica e la giustizia più elementari suggerivano che, in qualche luogo della città, anche lui fosse vittima del medesimo delizioso tormento.

Eliza si nascondeva per toccarsi il corpo in zone segrete, prima mai esplorate. Chiudeva gli occhi e allora era la mano di lui ad accarezzarla con la delicatezza di un uccello, erano sue le labbra che lei badava allo specchio, sua la vita che abbracciava con il cuscino, suoi i sussurri d'amore che il vento le portava. Lo vedeva apparire come una gigantesca ombra che si avventava su di lei per divorarla in mille modi stravaganti e sconvolgenti. Innamorato, demonio, arcangelo, non lo sapeva. Non voleva svegliarsi e metteva in pratica con fanatica determinazione il dono appreso da Mama Fresia di entrare e uscire dai sogni a suo piacimento. Arrivò a dominare talmente quest'arte che l'amante illusorio appariva come una presenza reale, poteva toccarlo, sentirne il profumo e la voce in modo perfetto, nitida e vicina. Se avesse potuto rimanere sempre addormentata, non avrebbe avuto bisogno d'altro: avrebbe potuto continuare ad amarlo dal suo letto per sempre, pensava. Si sarebbe estinta nel delirio di quella passione se Joaquin Andieta non si fosse presentato una settimana dopo per ritirare i colli del tesoro che andavano spediti a nord al cliente.

La sera prima lei seppe che sarebbe venuto, e non per istinto o premonizione, come alcuni anni dopo avrebbe insinuato raccontandolo a Tao Chi'en, maperché all'ora di cena aveva sentito Jeremy Sommers dare istruzioni a sua sorella e a Mama Fresia.                                                                                         

"Verrà a ritirare la merce lo stesso impiegato che l'ha portata," aggiunse poi, senza sospettare quale uragano di emozioni le sue parole, per motivi diversi, stessero scatenando nelle tre donne.

La ragazza passò la mattina sulla terrazza a scrutare la strada che dalla collina portava a casa loro. Circa a mezzogiorno vide arrivare il carro trainato da sei muli seguito dai lavoratori armati a cavallo. Sentì una pace gelida, come fosse morta, e non si accorse che Miss Rose e Mama Fresia la stavano osservando dalla casa.

"Tanta fatica per educarla e si innamora del primo sfaccendato che passa per strada," borbottò tra i denti Miss Rose.

Aveva deciso di fare il possibile per impedire il disastro, ma senza tanta convinzione, perché conosceva fin troppo bene l'irriducibile tempra del primo amore.

"Consegnerò io la merce. Di' a Eliza di entrare in casa e non lasciarla uscire per nessun motivo," ordinò.

"E come pensa che possa impedirglielo?"

"Rinchiudila, se è necessario."

"La rinchiuda lei, se è capace. Non mi metta in mezzo," replicò e uscì trascinando le ciabatte.

Risultò impossibile impedire che la ragazza si avvicinasse a Joaquin Andieta e gli consegnasse una lettera. Agì a viso aperto, guardandolo negli occhi, e con una determinazione talmente fiera che Miss Rose non ebbe il fegato di intercettarla e Mama Fresia quello di frapporsi. Le due donne capirono allora che il maleficio era ben più potente di quanto avessero immaginato e che non ci sarebbero state porte sprangate o candele benedette sufficienti per scongiurarlo. Anche il giovane aveva trascorso quella settimana con l'ossessione del ricordo della ragazza che credeva figlia del datore di lavoro, Jeremy Sommers, e di conseguenza assolutamente inaccessibile. Non sospettava di averla tanto impressionata e non gli era passato per la mente che, offrendogli quel memorabile bicchiere di succo durante l'incontro precedente, lei gli stesse dichiarando il suo amore; per questo si prese uno spavento formidabile quando lei gli consegnò una busta chiusa. Sconcertato, la mise in tasca e continuò a sorvegliare le operazioni di carico della merce sul carro, con le orecchie in fiamme, gli abiti madidi di sudore e brividi di febbre che gli percorrevano la schiena. In piedi, immobile e in silenzio, Eliza lo guardava fisso a pochi passi di distanza, facendo finta di non notare l'espressione furibonda di Miss Rose e quella compunta di Mama Fresia. Quando l'ultima cassa venne assicurata sul carro e i muli ebbero fatto mezzo giro per iniziare la discesa della collina, Joaquin Andieta si scusò con Miss Rose per il disturbo, salutò Eliza inclinando appena la testa e se ne andò più in fretta che poté.

La missiva di Eliza recava solo due righe in cui indicava dove e come incontrarsi. Lo stratagemma era di una semplicità e audacia tali da poterla tranquillamente far confondere con una fuoriclasse della sfacciataggine: Joaquin si doveva presentare dopo tre giorni alle nove di sera all'eremo della Vergine del Perpetuo Soccorso, una cappella eretta sul Certo Alegre, non lontana da casa Sommers, per proteggere i viandanti. Eliza aveva scelto il luogo per la vicinanza, e la data perché cadeva di mercoledì. Miss Rose, Mama Fresia e la servitù sarebbero stati impegnati con la cena e se si fosse allontanata per un attimo nessuno lo avrebbe notato. Dalla partenza del risentito Michael Steward non c'era più motivo per i balli, né l'inverno prematuro si accordava a tali attività, ma Miss Rose aveva mantenuto vivo il rituale per tacitare le chiacchiere che circolavano sul suo conto e su quello dell'ufficiale di marina. Sospendere le serate musicali in assenza di Steward equivaleva a confessare che l'unico motivo per organizzarle era lui.

 

 

 

Alle sette Joaquin Andieta si era già appostato e attendeva. con impazienza. Da lontano vide il fulgore della casa illuminata, la sfilata di carrozze con gli invitati e i lumi accesi dei cocchieri che aspettavano sulla strada. Un paio di volte si dovette nascondere dalle guardie che passavano a controllare le lampade dell'eremo spente dal vento. Si trattava di una piccola costruzione rettangolare di mattoni che culminava in una croce di legno dipinto, appena un po' più grande di un confessionale, e che custodiva un'immagine in gesso della Vergine. C'era un vassoio con file di candele votive spente e un'anfora con fiori secchi. Era una notte di luna piena, ma il cielo era attraversato da nuvoloni che a tratti coprivano completamente il chiarore lunare. Alle nove in punto avvertì la presenza della ragazza e ne distinse la sagoma avvolta dalla testa ai piedi da una mantella scura.

"La stavo aspettando, signorina," fu l'unica frase che gli venne in mente di farfugliare, sentendosi un idiota.

"Io ti ho sempre aspettato," replicò lei senza la minima esitazione.

Si tolse la mantella e Joaquin vide che era vestita da festa, portava la gonna arrotolata e sandali ai piedi. In mano teneva le calze bianche e le scarpe di camoscio che non voleva infangare per strada. I capelli neri, con la riga in mezzo, erano raccolti ai lati della testa in trecce legate con nastri di raso. Si sedettero in fondo all'eremo, sulla mantella che lei appoggiò per terra, nascosti dietro alla statua, in silenzio, molto vicini ma senza toccarsi. Per un lungo momento non osarono guardarsi nella dolce penombra, storditi dalla reciproca vicinanza, respirando la stessa aria e sentendosi ardere nonostante le raffiche di vento che minacciavano di lasciarli al buio.

"Mi chiamo Eliza Sommers," disse infine.

"E io Joaquin Andieta," rispose lui.

"Pensavo che ti chiamassi Sebastiàn."

"Perché?"

"Perché assomigli a san Sebastiàn, il martire. Non frequento la chiesa papista, sono protestante, ma qualche volta Mama Fresia mi ci ha portata ad assolvere i voti."

E lì si concluse la conversazione perché non seppero cos'altro dirsi; si scambiavano sguardi di sbieco e arrossivano contemporaneamente. Eliza percepiva il suo odore di sapone e sudore, ma non osava avvicinare il naso come avrebbe desiderato. Gli unici rumori nell'eremo erano il sussurro del vento e dei loro respiri agitati. Dopo pochi minuti lei annunciò che doveva tornare a casa prima che notassero la sua assenza e si congedarono stringendosi la mano. Lì si sarebbero incontrati nei mercoledì successivi, sempre a orari diversi e per brevi intervalli. In ognuno di questi entusiasmanti incontri procedettero a passi da gigante nei deliri e nei tormenti d'amore. Si raccontarono il minimo indispensabile frettolosamente perché le parole sembravano una perdita di tempo, e presto si presero le mani continuando a parlare, i corpi sempre più vicini a mano a mano che si avvicinavano le anime, fino a che, la sera del quinto mercoledì, si baciarono sulla bocca, dapprima a tentoni, poi esplorando e alla fine perdendosi nel piacere fino a liberare completamente il fervore che li consumava. A quel punto si erano già scambiati succinti riassunti dei diciassette anni di Eliza e dei ventuno di Joaquin. Avevano dibattuto dell'improbabile cesta con lenzuola di batista e copertina di visone come anche della scatola di sapone di Marsiglia, e per Andieta era stato un sollievo sapere che non era figlia di nessuno dei Sommers e che le origini di Eliza erano incerte quanto le sue, anche se, comunque, un abisso sociale ed economico li separava. Eliza venne a sapere che Joaquin era il frutto di un amore passeggero; il padre aveva tagliato la corda alla stessa velocità con cui aveva piantato il seme e il bambino era cresciuto senza conoscerne il nome, con il cognome della madre e marchiato dalla condizione di bastardo che lo avrebbe limitato a ogni passo della sua vita. La famiglia aveva espulso dal suo seno la figlia disonorata e aveva ignorato il bambino illegittimo. I nonni e gli zii, commercianti e funzionari di una classe media impantanata in pregiudizi, vivevano nella stessa città, a pochi isolati di distanza, ma non si incrociavano mai. La domenica si recavano alla stessa chiesa, ma a orari diversi, perché i poveri non assistevano alla messa di mezzogiorno. Segnato da quello stigma, Joaquin non aveva giocato negli stessi giardini né era stato educato nelle stesse scuole dei cugini, ma aveva utilizzato i vestiti e i giocattoli che loro scartavano e che una zia compassionevole faceva pervenire per strade tortuose alla sorella ripudiata. La madre di Joaquin Andieta era stata meno fortunata di Miss Rose e aveva pagato molto più cara la sua debolezza. Le due donne avevano quasi la stessa età, ma mentre l'inglese mostrava un aspetto giovanile, l'altra era consumata dalla miseria, dal deperimento e dalla sua triste occupazione, ricamare corredi da sposa a lume di candela. La cattiva sorte non ne aveva intaccato la dignità e aveva quindi educato il figlio sugli inflessibili codici dell'onore. Joaquin aveva imparato molto presto a camminare a testa alta e a sfidare qualsiasi accenno di scherno o di compatimento.

"Un giorno riuscirò a portar via mia madre da quella casaccia," si ripromise Joaquin nei sussurri dell'eremo. "Le darò una vita dignitosa, come quella che aveva prima di perdere tutto..."

"Non ha perso tutto. Ha un figlio," replicò Eliza.

"Io sono stato una disgrazia."

"La disgrazia è stata innamorarsi di un uomo cattivo. Tu sei la redenzione," affermò lei con risolutezza.

Gli appuntamenti dei due giovani erano molto brevi e non si svolgevano mai alla stessa ora, così Miss Rose non riuscì mai a scoprirli, non potendo mantenere la vigilanza notte e giorno. Sapeva che alle sue spalle stava succedendo qualcosa ma non arrivò a essere tanto perfida da chiudere Eliza sotto chiave o da mandarla in campagna, come il dovere le suggeriva, e si astenne dal confidare i suoi sospetti al fratello Jeremy. Immaginava che Eliza e l'innamorato si scambiassero delle lettere, ma non riuscì a intercettarne nessuna, nonostante avesse messo in allerta tutta la servitù. Le lettere c'erano davvero ed erano di un'intensità tale che se Miss Rose le avesse viste sarebbe rimasta di stucco. Joaquin non le spediva, ma le consegnava a Eliza a ogni incontro. In esse dichiarava con espressioni febbrili ciò che a quattr'occhi non osava, per orgoglio e per pudore. Lei le nascondeva in una scatola, trenta centimetri sotto terra, nel piccolo orto di casa, dove giornalmente si fingeva occupata con le piante di erbe medicinali di Mama Fresia. Quelle pagine, rilette migliaia di volte nelle pause rubate, costituivano il principale alimento della sua passione, perché mettevano in luce un aspetto di Joaquin Andieta che non si rivelava quando erano insieme. Sembravano scritte da un'altra persona. Quel giovane altero, sempre sulla difensiva, ombroso e tormentato, che l'abbracciava con foga e immediatamente la respingeva come se toccandola si fosse scottato, per iscritto dischiudeva la propria anima e descriveva i propri sentimenti con l'intensità di un poeta. Più tardi, quando Eliza avrebbe seguito per anni le tracce imprecise di Joaquin Andieta, quelle lettere sarebbero state il suo unico aggancio alla verità, la prova inconfutabile che quell'amore sfrenato non era stato un parto delle sue fantasie d'adolescente ma era realmente esistito, come breve benedizione e lungo supplizio.

Dopo il primo mercoledì all'eremo, sparirono in Eliza gli attacchi di colica, e niente nel suo comportamento e nell'aspetto lasciò trasparire il suo segreto, salvo il folle luccichio degli occhi e il ricorrere più frequentemente al dono di diventare invisibile. A volte dava la sensazione di trovarsi in diversi luoghi contemporaneamente, lasciava tutti confusi e incapaci di ricordare dove e quando l'avessero vista ma, appena iniziavano a chiamarla, lei si materializzava con l'aria di chi ignora di essere cercato. In altre occasioni, invece, si trovava nella stanza del cucito con Miss Rose o a preparare una pietanza con Mama Fresia, ma era diventata talmente trasparente che nessuna delle due donne aveva la sensazione di vederla. La sua presenza era leggera, quasi impercettibile, e quando si assentava nessuno se ne accorgeva se non diverse ore dopo.

"Sembri uno spirito! Sono stufa di cercarti. Non voglio che tu esca di casa e che ti allontani dalla mia vista," le ordinava ripetutamente Miss Rose.

"Non mi sono mossa da qui in tutto il pomeriggio," replicava Eliza, impavida, apparendo dolcemente in un angolo con un libro o un ricamo in mano.

"Fai un po' di rumore, bambina mia, per carità! Come faccio a vederti se sei più silenziosa di un coniglio?" aggiungeva a sua volta Mama Fresia.

Lei diceva di sì e poi faceva quel che le pareva, ma si ingegnava di sembrare ubbidiente per rimanere nelle loro grazie. In pochi giorni acquisì una sorprendente perizia nell'ingarbugliare la realtà, come se avesse passato tutta la vita a occuparsi di arti magiche. Vista l'impossibilità di coglierla in contraddizione o di mettere a nudo una bugia, Miss Rose optò per guadagnarne la confidenza e iniziò ad alludere spesso ad argomenti amorosi. Di pretesti non ne mancavano: pettegolezzi sulle amiche, letture romantiche condivise o libretti delle nuove opere italiane che imparavano a memoria, ma Eliza non si lasciava scappare una sola parola che tradisse i suoi sentimenti. Miss Rose cercò allora invano per la casa indizi delatori; frugò tra la biancheria e nella camera della ragazza, mise sottosopra la sua collezione di bambole e di carillon, i libri e i quaderni, ma non riuscì a trovare il suo diario. Se anche ci fosse riuscita, sarebbe rimasta delusa perché in quelle pagine non c'era menzione alcuna di Joaquin Andieta. Eliza scriveva solo per ricordare. Il diario conteneva di tutto, dai sogni ricorrenti all'infinita lista di ricette di cucina e di consigli domestici quali il modo di ingrassare una gallina o di togliere una macchia d'unto. C'erano anche speculazioni sulla sua nascita, sul corredino lussuoso e la scatola di sapone di Marsiglia, ma non una parola su Joaquin Andieta. Non aveva bisogno di un diario per ricordarlo. Solo diversi anni dopo avrebbe cominciato a raccontare su quelle pagine il suo amore del mercoledì.

Finalmente, una sera, i due giovani non si trovarono all'eremo, bensì nella residenza dei Sommers. Per giungere a quella decisione Eliza passò attraverso il tormento di dubbi infiniti, perché capiva che si trattava di un passo definitivo. Solo per il fatto di trovarsi in segreto senza vigilanza avrebbe perso l'onore, il più prezioso tesoro di una ragazza senza il quale non c'era futuro possibile. "Una donna senza virtù non vale nulla, non potrà mai diventare una sposa e una madre, tanto vale che si leghi una pietra al collo e si butti in mare" era un chiodo su cui avevano battuto e ribattuto. Pensò che non avrebbe avuto attenuanti per l'errore che stava commettendo, perché agiva con calcolo e premeditazione. Alle due del mattino, quando tutta la città era sprofondata nel sonno, fatta eccezione per le guardie che facevano la ronda scrutando nel buio, Joaquin Andieta trovò il modo di introdursi come un ladro dalla terrazza della biblioteca, dove c'era Eliza ad attenderlo in camicia da notte, scalza, tremante di freddo e di ansia. Presolo per mano lo condusse alla cieca per la casa fino a un guardaroba in cui veniva riposto in grandi armadi il vestiario della famiglia e, in diverse scatole, i materiali per abiti e cappelli, usati e riusati da Miss Rose nel corso degli anni. Per terra, avvolti in lenzuola, venivano mantenuti distesi i tendaggi del salone e della sala da pranzo in attesa della stagione successiva. A Eliza parve il luogo più sicuro, lontano dalle altre camere. A ogni modo, per precauzione, aveva aggiunto della valeriana nel bicchiere d'anisetta che Miss Rose beveva prima di andare a letto e nel brandy che Jeremy sorseggiava mentre fumava un sigaro cubano dopo cena. Conosceva ogni centimetro della casa, sapeva esattamente dove il pavimento scricchiolava e come aprire le porte senza che cigolassero, poteva guidare Joaquin al buio senza altra luce che quella della memoria, e lui la seguì, docile e pallido per la paura, sordo alla voce della coscienza, mescolata a quella della madre che gli ricordava implacabile il codice d'onore di un uomo perbene. Non farò mai a Eliza quello che mio padre ha fatto a mia madre, si ripeteva mentre avanzava a tastoni per mano alla ragazza, sapendo che qualsiasi scrupolo era inutile perché già era stato vinto da quel desiderio imperioso che non lo lasciava in pace da quando l'aveva vista per la prima volta. Nel frattempo Eliza si dibatteva tra le voci ammonitrici che le rimbombavano in testa e l'impulso dell'istinto, con la sua straordinaria capacità di ammaliare. Non aveva le idee chiare circa quello che sarebbe successo nella stanza degli armadi, ma vi si dirigeva sapendo di essersi già arresa.

La casa dei Sommers, sospesa nell'aria come un ragno alla mercè del vento, non la si riusciva a mantenere calda, nonostante i bracieri a carbone che la servitù teneva accesi per sette mesi all'anno. Le lenzuola erano sempre umide a causa del vento continuo proveniente dal mare e si dormiva con bottiglie d'acqua calda vicino ai piedi. L'unico luogo sempre tiepido era la cucina, dove il forno a legna, un enorme marchingegno dai molteplici usi, non veniva mai spento. D'inverno il legno scricchiolava, le assi si sollevavano e lo scheletro della casa sembrava sul punto di iniziare a navigare, come un'antica fregata. Miss Rose non familiarizzò mai con le tempeste del Pacifico, come del resto non riuscì mai ad abituarsi ai tremori. I veri terremoti, quelli che mandavano la terra a gambe all'aria, si verificavano più o meno ogni sei anni e in quelle occasioni lei aveva dimostrato un sorprendente sangue freddo, ma quelle scosse giornaliere che davano una scrollata alla vita la mettevano di pessimo umore. Non volle mai collocare la porcellana e le stoviglie su mensole rasoterra, come facevano i cileni, e quando il mobile della sala da pranzo traballava e i piatti cadevano in pezzi, malediceva a squarciagola il paese. Il guardaroba in cui Eliza e Joaquin si amarono sopra il grande involto di tende di cretonne a fiori, che d'estate sostituivano i pesanti tendaggi di velluto verde del salone, si trovava a pianterreno. Fecero l'amore circondati da armadi solenni, scatole di cappelli e involti contenenti i vestiti primaverili di Miss Rose. Né il freddo né l'odore di naftalina li scoraggiarono perché viaggiavano più in alto degli inconvenienti pratici, del timore delle conseguenze e della loro stessa goffaggine da cuccioli. Non sapevano come fare, ma se lo inventarono strada facendo, frastornati e confusi, in completo silenzio, guidandosi reciprocamente senza molta scioltezza. A ventun anni lui era vergine come lei. A quattordici aveva deciso di farsi sacerdote per compiacere sua madre, ma a sedici si era iniziato alle letture liberali, si era dichiarato nemico dei preti, anche se non della religione, e aveva deciso di mantenersi casto fino a quando non avesse realizzato il proposito di togliere la madre dalla casaccia. Gli sembrava una ricompensa minima per gli innumerevoli sacrifici di lei. Nonostante la verginità e la terribile paura di essere sorpresi, i giovani furono in grado di trovare al buio quanto stavano cercando. Slacciarono bottoni, sciolsero nodi, si spogliarono dei pudori e si ritrovarono nudi a bere l'aria e la saliva dell'altro. Aspirarono fragranze straordinarie, cercarono di far ordine nel coscienzioso affanno di decifrare gli enigmi; di raggiungere la profondità dell'altro e di perdersi insieme nello stesso abisso. Le tende estive vennero macchiate dal sudore caldo, dal sangue verginale e dal seme, ma nessuno dei due notò questi segni dell'amore. Al buio riuscivano a malapena a distinguere la sagoma dell'altro e a misurare lo spazio disponibile per non far franare le pile di scatole e gli appendiabiti nel fragore dei loro abbracci. Erano grati al vento e alla pioggia sui tetti che dissimulavano gli scricchiolii del pavimento, ma il galoppare dei loro cuori e l'impeto del loro ansimare e dei sospiri d'amore erano talmente assordanti che non si capacitavano di come l'intera casa non si svegliasse.

All'alba Joaquin Andieta uscì dalla stessa finestra della biblioteca da cui era entrato, ed Eliza tornò esangue a letto. Mentre lei dormiva protetta da diverse coperte, lui fece due ore di strada per scendere la collina sotto il temporale. Attraversò con cautela la città senza richiamare l'attenzione della guardia e giunse a casa giusto quando le campane della chiesa rintoccavano annunciando la prima messa. Aveva progettato di entrare con discrezione, di rinfrescarsi, di cambiare il collo della camicia e di dirigersi al lavoro con l'abito bagnato visto che non ne possedeva un altro, ma sua madre lo attendeva, sveglia, con l'acqua bollente per il mate e il pane vecchio tostato, come tutte le mattine.

"Dove sei stato, figliolo?" gli chiese con tanta tristezza che lui non ebbe cuore di ingannarla.

"A scoprire l'amore, mamma," confessò, abbracciandola raggiante.

Joaquin Andieta viveva tormentato da un romanticismo politico senza eco in quel paese di gente pratica e prudente. Era diventato un fanatico delle teorie di Lamennais, che leggeva in mediocri e confuse traduzioni dal francese, esattamente come leggeva gli enciclopedisti. Al pari del suo maestro, auspicava il liberalismo cattolico in politica e la separazione tra Stato e Chiesa. Si dichiarava un cristiano primitivo, come gli apostoli e i martiri, ostile però ai preti che tradivano Gesù e la sua vera dottrina e che era solito definire sanguisughe nutrite dalla credulità dei fedeli. Si guardava bene, tuttavia, dal lasciarsi andare a tali ragionamenti davanti a sua madre, che sarebbe potuta morire dal dispiacere. Si riteneva anche nemico di quell'oligarchia così inetta e decadente, e del governo, che invece di rappresentare gli interessi del popolo faceva quelli dei ricchi, come dimostravano con innumerevoli esempi i suoi compagni delle riunioni alla Libreria Santos Tornero e come lui spiegava pazientemente a Eliza, anche se lei lo ascoltava a malapena, interessata com'era a sentire il suo odore più che i suoi discorsi. Il ragazzo era disposto a giocarsi la vita per l'inutile gloria di un lampo di eroismo, ma aveva una paura viscerale di guardare Eliza negli occhi e di parlare dei propri sentimenti. Presero l'abitudine di fare l'amore almeno una volta alla settimana nella stanza degli armadi, diventata il loro nido. Erano così pochi e preziosi i momenti da trascorrere insieme che a lei sembrava assurdo perderli a filosofare; se si trattava di parlare, allora preferiva che l'argomento fossero i suoi gusti, il suo passato, sua madre e i progetti di sposarsi con lei un giorno o l'altro. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentirlo pronunciare le magnifiche frasi che le scriveva nelle lettere. Pur di sentirgli dire, per esempio, che sarebbe stato più facile misurare le intenzioni del vento o la costanza delle onde sulla spiaggia che non l'intensità del suo amore; che non c'era notte invernale in grado di raffreddare la fiamma inestinguibile della sua passione; che trascorreva la giornata a sognare e la notte a vegliare, nel tormento senza tregua della follia dei ricordi, a contare, con l'angoscia di un condannato, le ore che mancavano ai loro prossimo abbraccio; "sei il mio angelo e la mia perdizione, in tua presenza raggiungo l'estasi divina e in tua assenza sprofondo all'inferno, qual è la natura del potere che eserciti su di me, Eliza? Non parlarmi di domani e di ieri, vivo solamente per questo istante dell'oggi in cui torno a inabissarmi nella notte infinita dei tuoi occhi scuri". Infervorata dai romanzi di Miss Rose e dai poeti romantici i cui versi conosceva a memoria, la ragazza si perdeva nel piacere intossicante di sentirsi adorata come una dea e non coglieva l'incongruenza tra quelle dichiarazioni infiammate e la vera essenza di Joaquin Andieta. Nelle lettere si trasformava in un amante perfetto dotato degli strumenti per descrivere la sua passione con tale angelico afflato che la colpa e il timore sparivano per far strada all'esaltazione totale dei sensi. Nessuno prima di loro si era amato in quel modo, erano stati scelti tra i mortali per vivere una passione irripetibile, diceva Joaquin nelle lettere, e lei gli credeva. Tuttavia faceva l'amore con ansia e smania, senza assaporarlo, come chi soccombe a un vizio, con il tormento della colpa. Non si concedeva il tempo per conoscere il corpo di lei né per rivelare il suo; veniva vinto dall'urgenza del desiderio e del segreto. Aveva la sensazione che il tempo non fosse mai sufficiente, nonostante Eliza lo tranquillizzasse spiegandogli che nessuno andava in quella stanza di notte e che i Sommers dormivano sotto l'effetto della droga, che Mama Fresia faceva altrettanto nella sua casupola in fondo al patio e che le stanze del resto della servitù si trovavano all'ultimo piano. L'istinto attizzava l'audacia della ragazza incitandola a scoprire le molteplici possibilità dell'amore, ma imparò presto a reprimersi. Le sue iniziative nel gioco dell'amore mettevano Joaquin sulla difensiva; si sentiva criticato, ferito o minacciato nella sua virilità. I peggiori sospetti lo tormentavano, perché non riusciva a immaginare una tale naturale sensualità in una fanciulla di diciassette anni il cui unico orizzonte erano le quattro pareti di casa. La paura di una gravidanza peggiorava la situazione, perché nessuno dei due sapeva come evitarla. Joaquin aveva una vaga idea della meccanica della fecondazione e supponeva che se si fosse ritratto in tempo sarebbero stati in salvo, ma non sempre ci riusciva. Si rendeva conto della frustrazione di Eliza, ma non sapeva come consolarla e invece di provarci si rifugiava immediatamente nel suo ruolo di guida intellettuale in cui si sentiva sicuro. Mentre lei anelava di essere accarezzata o almeno di poter riposare sulla spalla dell'amato, lui si separava, si vestiva e sciupava il tempo prezioso che ancora rimaneva nel vagliare nuovi argomenti per le stesse idee politiche ripetute centinaia di volte. Quegli abbracci lasciavano Eliza sui carboni ardenti, ma non osava ammetterlo nemmeno nel recesso più nascosto della sua coscienza, perché sarebbe stato come mettere in dubbio la qualità di quell'amore. Allora cadeva nella trappola dell'indulgenza e giustificava l'amante pensando che, se avessero avuto più tempo e un luogo sicuro, si sarebbero amati meglio. Molto più belle dei momenti di fisicità erano le ore successive, trascorse a inventare quel che non era successo, e le notti passate a sognare ciò che forse sarebbe successo al prossimo incontro nella stanza degli armadi.

Con quella serietà di cui investiva tutte le sue azioni, Eliza si dedicò al compito di idealizzare l'innamorato fino a trasformarlo in un'ossessione. Desiderava solo poterlo servire incondizionatamente per il resto dei suoi giorni e soffrire per dimostrare la sua abnegazione, e morire per lui, se si fosse reso necessario. Annebbiata dalla malia della prima passione, non si rendeva conto di non essere corrisposta con la medesima intensità. Il suo cavaliere non era mai del tutto presente. Perfino durante gli impetuosi abbracci sul cumulo di tende il suo spirito vagava per altri lidi, pronto a partire o già assente. Si rivelava solo per metà, fugacemente, in un gioco esasperante di ombre cinesi, ma al momento del commiato, quando lei era sul punto di scoppiare a piangere per fame d'amore, le consegnava una delle sue favolose lettere. Per Eliza, allora, il mondo intero si trasformava in uno specchio, il cui unico scopo era riflettere i suoi sentimenti. Soggiogata dall'arduo proposito dell'amore assoluto, non dubitava della propria capacità di darsi senza riserve e proprio per questo non riconosceva l'ambiguità di Joaquin. Aveva inventato un amante perfetto e nutriva quella chimera con indomabile testardaggine; e la sua immaginazione la compensava degli ingrati abbracci dell'amante che la lasciavano sperduta nel limbo oscuro del desiderio insoddisfatto.